Onorevoli Colleghi! - Riteniamo doveroso presentare anche in questa legislatura la seguente proposta di legge, in quanto l'attualità delle norme che detta è stata confermata proprio dal trascorrere del tempo, rendendo necessario un suo spassionato esame.
      Napoleone, sconfitta l'Austria nel 1805 ad Austerlitz, con la pace di Presburgo aggregava la Dalmazia al Regno italico, ed a febbraio dell'anno dopo il generale Mathieu Dumas, con un «proclama» ne dava l'annuncio: «Dalmati! L'Imperatore Napoleone, Re d'Italia, Vostro Re, vi rende alla Vostra Patria. Egli ha fissato i Vostri destini; il Trattato di Presburg garantisce la riunione della Dalmazia al regno d'Italia... Bravi Dalmati! Riempite i vostri destini, ripigliate il vostro Rango, quello degli Avi vostri fra le nazioni, mostratevi fedeli alla Patria comune, anelanti pel Servizio del Vostro Sovrano, sommessi alle Leggi sotto le quali Egli ha riuniti li Popoli d'Italia, come membri d'una sola Famiglia».
      Nella pragmaticità della logica e della storia, Napoleone aveva ricostituito l'unità di quel bacino adriatico, già retaggio di Venezia, che per oltre quattro secoli aveva visto la simbiosi - storicamente consacrata dal motto: «Ti con Nu - Nu con Ti» che tutto esprimeva - delle genti di Dalmazia con la Serenissima.
      Caduto Napoleone, l'Austria-Ungheria nei suoi cento anni di dominazione in Dalmazia perseguitò la lingua, la cultura, la tradizione di quelle popolazioni, favorendo - per gli interni equilibri dell'Impero - la componente croata.

 

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      Ma i dalmati erano italiani, e lo manifestavano partecipando ai fermenti, alle idee, ai propositi che maturavano nella Penisola. A Zara, nel 1822, l'Imperial-regio Governo sottoponeva all'Inquisizione di Stato venticinque aderenti alla Carboneria, altri venticinque vennero «adombrati» e sessantaquattro dichiarati «sospetti».
      Nel 1848, i giovani delle città dalmate, all'appello di San Marco, passavano l'Adriatico e con Niccolò Tommaseo combattevano per la Repubblica di Venezia. Costituirono la Legione dalmato-istriana. Cinque caddero nella lotta.
      Ma il 1848 significava anche Repubblica romana, e sei dalmati in armi furono presenti. Fra gli altri Federico Seismit-Doda, poi deputato al Parlamento italiano, Ministro delle finanze nel Governo di Benedetto Cairoli (1878) ed in quello di Crispi (1889-1890).
      A Curtatone, come primo tenente del Battaglione «Bande Nere», combattè Marino Giurovich. Sarà fucilato dagli austriaci a Livorno quale promotore di moti mazziniani.
      Ventuno furono i dalmati che nelle campagne del 1859-1860 s'arruolarono nell'esercito italiano o indossarono la Camicia rossa. Fra gli altri, Marco Cossovich, già tenente della Guardia Nobile alla difesa di Venezia, che combattè a Calatafimi ed a Palermo. Uno dei pochi che Garibaldi ricorda nominativamente nel suo libro I Mille.
      Nella terza guerra d'indipendenza, Giorgio Caravà, da Tenìn (Zara), comandò il 5 Reggimento Granatieri. Promosso generale divenne aiutante di campo di Re Umberto. Con lui, altri ventiquattro dalmati combatterono in quella campagna. Giovanni Ivancich, da Spalato, guardiamarina sul Re d'Italia, moriva a Lissa.

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      Mentre nella penisola si chiudeva il ciclo risorgimentale, Zara doveva affrontare la lotta per la difesa della sua italianità. L'Austria, nel 1866, perduto il Veneto, vedendo sorgere un'Italia dove l'ansito unitario coinvolgeva ed aggregava le popolazioni, e paventando ulteriori fermenti disgregatori nella compagine dell'Impero, iniziò la metodica snazionalizzazione di quanto d'italiano esisteva in Dalmazia.
      Per Vienna fu una scelta politica di salvaguardia, ma nella quale si inserì la componente croata dell'Impero asburgico che intendeva aggregarsi la Dalmazia e, per la forza del numero, diventare la terza componente di quell'Impero che si era articolato nella duplice monarchia d'Austria e di Ungheria.
      In quegli anni, inoltre, i croati, dopo secoli di acquiescente sottomissione all'Austria, cominciavano a ricercare una propria identità storica e, sotto la spinta dei nascenti nazionalismi europei, si richiamavano a lontani precedenti dell'alto medio-evo per legittimare le loro aspirazioni sulla Dalmazia.
      Aspirazioni che Vienna sfruttò sospingendo i croati a slavizzare la Dalmazia. Accontentandoli nel loro nazionalismo, sostanzialmente se ne serviva per coartare l'elemento italiano ritenuto - non a torto - preminente pericolo per l'Impero. Ma non consentì mai l'aggregazione della Dalmazia alla Croazia.
      Primo obiettivo della pressione croata fu la conquista degli ottantasei comuni che intorno al 1870 erano retti da amministrazioni italiane, tradizionale espressione di comunità che, sin dai tempi di Venezia, erano state costantemente guidate da italiani.
      Abbattere le amministrazioni comunali significava demolire le roccaforti dell'italianità consentendo ad austriaci e croati - ciascuno per i propri fini - di incidere sempre più sulla nazionalità delle comunità stesse.
      Fu una lotta giornaliera, sottile, difficile, fra «annessionisti» croati ed «autonomisti» italiani, protrattasi sino alla prima guerra mondiale.
      Per poter vincere le tenaci resistenze l'Austria modificò anche le circoscrizioni elettorali, aggregando alle città campagne e circondari. Ed i comuni, nell'arco d'una cinquantina di anni, nonostante ogni abnegazione,

 

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sarebbero caduti tutti, meno il comune di Zara.
      Era indispensabile organizzarsi capillarmente per contrastare questa pressione. E gli zaratini strinsero le fila, costituendo società politiche, sportive, di mutuo soccorso, di cultura. Ciascuna divenne centro di resistenza, di irradiamento, ed anche di provocazione. Due anni dopo la presa di Roma, la «Società del tiro a segno di Zara» adottò la divisa del bersagliere italiano. E l'iniziativa entusiasticamente dilagò a Sebenico, a Spalato, nei più piccoli centri. Era una affermazione ed una sfida.
      La lotta ebbe il suo arengo nella stampa locale dove - è bene ricordarlo - sino al 1880 circa i giornali croati venivano pubblicati in italiano. Sintomaticamente l'Avvenire di Ragusa, a chi gli rinfacciava di difendere le idee croate scrivendo in italiano, rispondeva che: «la università di quelli che leggono giornali nella Dalmazia ha bisogno di apprendere dall'italiano le verità slave», poiché non conoscevano altra lingua.
      Nel 1866 a Zara vide la luce il Dalmata, organo del partito italiano che, fra sequestri e censure, continuerà la sua battaglia sino agli anni della prima guerra mondiale. Ed i croati gli opposero il Nazionale, stampato in italiano, con uno scarno supplemento in slavo. Si dovrà giungere alla fine del 1878 per leggere la nota redazionale: «Impiegheremo tutte le nostre forze affinché nelle nostre colonne a poco a poco sia esclusa anche una sola linea che non sia tutta nella lingua nazionale», cioè in serbo-croato.
      Negli anni a cavallo del secolo venne combattuta l'altra battaglia, la più determinante: quella per la difesa della lingua. Nel 1890 Vienna aveva deliberato l'istituzione di scuole croate a Zara. E la popolazione, che immediatamente insorse in una memorabile adunata di protesta, si organizzò. Con l'aiuto della «Lega Nazionale», personalmente ciascun zaratino - anno dopo anno - contribuì all'apertura di nuove scuole, direttamente gestite, temendo che prima o poi negli imperial-regi istituti venisse meno l'insegnamento sino a quel momento impartito in italiano.
      Nel 1899 a Zara fu fondata la «Società degli studenti italiani della Dalmazia», che divenne il braccio operativo del partito italiano. Così, di fronte alle autorità austriache, si potè giustificare la costituzione di biblioteche popolari, si potè - nel nome della cultura - invitare a Zara i più prestigiosi esponenti della Penisola come Innocenzo Cappa, Alberto Lombroso, Virginio Gayda, Giulio Caprin, Guido Mazzoni ed altri che, sotto lo schermo di un titolo letterario, nelle loro lezioni o nelle loro conferenze portavano alla città la voce della Patria.
      Zara manifestava in tutti i modi la sua partecipazione alle vicende della Madrepatria e sentì come un dovere di essere presente a Roma con una propria rappresentanza alle onoranze funebri per la morte di Re Umberto. Dirà un rapporto della polizia austriaca che: «Anche in questa città (Zara) le manifestazioni di lutto furono nei giorni 8 e 9 corrente (agosto) importanti. Mentre nei primi giorni dopo il tragico avvenimento soltanto il Console italiano issò la bandiera con crespo di lutto a mezz'asta ed i sudditi italiani (cioè cittadini del Regno che abitavano a Zara) coprirono le loro abitazioni e locali d'affari con segni di lutto, una gran parte dei cittadini (cioè italiani cittadini austriaci) seguirono tale esempio nei giorni 8 e 9 e specialmente i negozianti delle principali strade, Calle Larga e Calle S. Maria, dove quasi tutte le vetrine dei negozi erano coperte da segni di lutto; mentre durante la Messa funebre nella Chiesa del Duomo al 9 corrente e durante tutto il giorno i locali erano chiusi». Espressioni di lutto, ma soprattutto manifestazioni d'italianità.
      Nel 1909 Vienna imponeva l'uso della lingua croata negli atti ufficiali. Oltre cinquecento tra dirigenti ed impiegati di Zara firmarono con il proprio nome e cognome un «Memoriale» di protesta - Sulla nazionalità italiana della Dalmazia - diretto al Ministro austriaco dell'interno.
      E la sezione della «Lega Nazionale», in quell'anno, grazie al comune impegno de
 

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gli zaratini poteva vantare, in difesa della lingua italiana, la gestione diretta di un collegio maschile, di uno femminile, di tre giardini d'infanzia, d'una scuola elementare mista maschile e femminile, e di una scuola preparatoria alle medie. Gli insegnanti venivano dalla penisola. Tessuto connettivo di queste realizzazioni, le sezioni «segrete» della «Dante Alighieri».
      Con la lingua, per i dalmati era indispensabile salvare anche la tradizione di quella cultura per secoli appresa nell'università di Padova dove, annesso il Veneto all'Italia, era sempre più difficile accedere.
      Così, tra gli studenti delle province italiane dell'Austria sorse prepotente la richiesta di una facoltà con insegnamento italiano nell'ambito dell'Impero. Vienna si oppose, e nel novembre del 1904 si ebbero i fatti di Innsbruck: sui centotrentasei studenti arrestati, sedici erano zaratini. Poi, i fatti di Graz e di Vienna con altri feriti ed arrestati.
      Nel secondo decennio del secolo, con le guerre balcaniche, si sentì che qualcosa di nuovo, anche se ancora indefinito, stava maturando nell'Impero asburgico. L'impresa italiana di Libia ed il forzamento dei Dardanelli sollevarono l'entusiasmo di Zara.
      Quanto più l'Austria comprimeva l'italianità tanto più Zara, in una orgogliosa battaglia, anche se oramai di retroguardia, cercava di non perdere ulteriore terreno. E seguiva con sempre più morbosa sensibilità le vicende internazionali attendendo la denuncia della Triplice Alleanza da parte di Roma.
      A Sarajevo, Gavrilo Princip esplodeva i suoi colpi fatali ponendo l'Europa di fronte a se stessa. Zara, in quel 1914, era l'unico comune ancora italiano della Dalmazia e visse nell'ansia e nel timore i mesi della neutralità dell'Italia. Ma venne il 24 maggio.
      D'Annunzio, che sempre aveva inteso il travaglio di Zara, ora separata dalla Patria anche da un Adriatico divenuto ostile, volle portarle il saluto dell'Italia. Pianificò un volo sul cielo di quella città, da lui battezzata «La Santa», per lanciarle un messaggio. Ma l'impresa non potè aver luogo. Alcuni giorni prima della partenza il pilota prescelto per portare il Comandante su Zara perdette la vita in un incidente di volo.
      In quel «Messaggio» il Poeta scolpiva l'animo della città. «Chi più di te fu coraggiosa e costante, fedele e disperata, nella lotta d'ogni giorno? Noi lo sappiamo. Noi ce ne ricordiamo. Il popolo di Zara solo contro tutti, negato dalla Madre e senza lamento contro la Madre, ha salvato il Comune italiano, ha preservato la figura della nostra più antica dignità. Nella Dalmazia latina, da schiatte barbariche iniquamente invasa e usurpata col favore imperiale, il popolo di Zara ha salvato e confermato il glorioso Comune italico. Ha mantenuto nel suo pugno il fermento della nostra più antica libertà... Queste parole che ti gettiamo dovrebbero essere un canto, perché solo il canto è degno di avvicinarsi alla tua virtù ed al tuo martirio».
      Si può dire che la città, anche se allora non conobbe il «Messaggio», ne interpretò lo spirito con i suoi centoquarantun giovani che, attraversato l'Adriatico, volontari nell'esercito italiano, vestirono il grigio-verde. Altri trentanove, costretti nell'esercito asburgico, attesero di essere sulla linea del fronte e, sul Carso, passarono i reticolati. Meno uno, freddato dal fuoco austriaco nella terra di nessuno. Disertori dall'Austria combatterono con i fanti di tutti i comuni d'Italia. Caddero diciannove dalmati, e dodici erano zaratini. Una medaglia d'oro al valor militare, quella di Francesco Rismondo - l'«Assunto di Dalmazia» - nove medaglie d'argento, otto di bronzo, premiarono il loro valore.
      Il 4 novembre 1918, Zara redenta - unica fra tutte le città della Dalmazia - divenne italiana. Non le altre città, perdute nel naufragio della diplomazia italiana durante la Conferenza della pace. A Versailles, Roma non seppe farsi riconoscere dai suoi stessi alleati i diritti che le derivavano dalla cambiale sottoscritta nel 1915 con il Patto di Londra e che aveva onorato con 680.000 morti. La diplomazia italiana naufragò ancora nei negoziati diretti con i rappresentanti del nuovo Stato dei serbi-croati-sloveni,
 

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e venne firmato il Trattato di Rapallo.
      Zara, che per secoli era stata la capitale della Dalmazia, ora redenta, veniva avulsa dal suo naturale circondario, ristretta in un territorio che superava appena la cinta delle mura. Rimase fedele alla propria storica tradizione e, fra le due guerre mondiali, proseguì nella missione di guida e di riferimento per gli italiani di Dalmazia rimasti al di là della sua breve frontiera.
      Provincia d'Italia, partecipò fattivamente alla vita della nazione. Sentì, come impegno morale verso quei 680.000 fratelli che vent'anni prima avevano sacrificato la loro giovinezza per redimerla, di dover rispondere all'appello quando la Patria fu nuovamente in armi. Sei furono i suoi caduti nella campagna d'Etiopia; tre le medaglie d'argento e cinque di bronzo le ricompense conquistate. Altri sei zaratini caddero sui campi di Spagna, nella crociata per la difesa della civiltà europea. Cinque le medaglie d'argento, due di bronzo.

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      Venne l'ultima guerra, e la tragedia esaltò la storia di Zara.
      Cittadina di 22 mila abitanti, unica fra tutte le città d'Italia assediata per più giorni durante la campagna contro la Jugoslavia, resistette. Nel contrattacco passò il confine.
      Nel corso della conflagrazione, attraverso le classi di leva, i richiami, i volontari, con i suoi 3.500 combattenti dette un tributo di 324 caduti; più del 9,25 per cento della forza alle armi.
      E l'Italia ricompensò questi combattenti con otto medaglie d'oro al valor militare, con quarantuno medaglie d'argento, con cinquantadue medaglie di bronzo, con centoquindici croci di guerra al valor militare.
      A questo sacrificio, a questo eroismo, purtroppo sterile, si aggiunse l'olocausto della popolazione civile.
      Quando le vicende della guerra si appalesarono chiaramente favorevoli alle potenze alleate, Tito chiese che Zara divenisse obiettivo dei bombardieri anglo-americani. E convinse gli alleati che quel piccolo centro con un porto ben limitato fosse determinante centro logistico per le divisioni tedesche nei Balcani.
      Gli Alleati gli credettero: dal 2 novembre 1943 al 31 ottobre 1944, sarebbero apparsi 54 volte nel cielo di Zara. La città, indifesa, venne letteralmente distrutta nell'82 per cento delle sue abitazioni; quanto restava era gravemente danneggiato. Tito, con l'inganno, aveva perfezionato la secolare aspirazione croata. Era stato annientato anche l'ultimo baluardo della italianità sulla costa orientale dell'Adriatico.
      Sotto quei bombardamenti non fu possibile annoverare i morti. Probabilmente duemila persone perdettero la vita. Ma il silenzio di un'Italia prostrata dalla guerra perduta coprì tanto sacrificio. Venne anche dimenticato che a Zara un prefetto, Vezio Orazi, ed un capo della provincia, Vincenzo Serrentino, erano stati uccisi dai partigiani titini.
      A Parigi, alla Conferenza della pace, nessuno ricordò tanta tragedia. Neppure a Norimberga.
      Quando, nel 1947, il diktat sanzionò definitivamente la sorte della città, i pochi zaratini ancora abbarbicati alle macerie abbandonarono le rovine delle loro case scegliendo la via dell'esilio. Troncarono le loro stesse radici, e coscientemente lo fecero, perché essendo italiani e liberi tali vollero rimanere.
      Esuli in Patria, donarono ancora all'Italia la vita del giovane Pierino Addobbati, colpito a morte dalla polizia alleata a Trieste, quando la città giuliana era contesa.
      Perseverarono nella dedizione, e l'Italia concesse a due zaratini, ufficiali dell'Arma dei carabinieri, le massime ricompense: al capitano Enrico Barisone, ferito nella lotta contro il banditismo sardo, la medaglia d'oro al valor militare; al tenente colonnello Antonio Varisco, abbattuto a Roma dal terrorismo rosso, la medaglia d'oro al valor civile.

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      Superato il primo travaglio dell'esodo, negli zaratini sorse naturale l'istinto di ritrovarsi, ed i superstiti nella solidarietà del dolore cementarono la nuova comunità.
      Il 20 settembre 1953, per la prima volta dopo la diaspora, sull'onda di una emotività non contenuta, convennero a Venezia, nella loro città-madre. Fecero il contrappello dei sopravvissuti e l'appello dei morti.
      Da allora, ogni anno, quegli esuli dispersi nei tanti comuni della Penisola ed all'estero si riuniscono in un raduno nazionale. Ma subito avvertirono che al loro ritrovarsi mancava uno scopo. Sentirono che la comunità non poteva essere la semplice somma di tante presenze e di soli ricordi. Sentirono di aver in sè una forza viva, vitale per dimostrare ancora la propria identità. Idee, propositi, che si plasmarono nella ricostituzione del loro comune.
      Era il 1958, e nel raduno di Napoli, nella sala dei Baroni al Maschio Angioino, gli zaratini, dopo aver solennemente dichiarato che il comune «si afferma e si incardina soprattutto nella libera volontà unanimemente espressa dai cittadini», e di voler, «forti del diritto millenario della stirpe.... mantenere intatta la tradizione municipale», plebiscitariamente deliberarono la costituzione dell'Associazione «Libero Comune di Zara in esilio».
      Perfezionata formalmente la deliberazione, per ricomporre «la unità municipale di un libero comune italico» per «mantenere fra i cittadini associati gli antichi vincoli di concordia civica, continuando in Patria il culto delle tradizioni cittadine» per «rivendicare in nome della storia e della cultura italiana della Dalmazia, il diritto ad un libero plebiscito per il ritorno alla Patria dei padri», il 29 settembre 1963, nelle sale del Palazzo ducale di Venezia elessero il loro primo sindaco.
      La forza spirituale di questo comune, senza territorio - ma con il suo sindaco, la sua giunta, i suoi consiglieri, con l'anagrafe - che riviveva nel solco della storia della città, ha dato un senso alla loro condizione di esuli in Patria.
      Però, in un'Italia dominata «non tanto dalla cultura comunista, ma da quella pseudo-cultura che - come aveva affermato Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, - ci è stata propinata per quarant'anni in modo egemonico come cultura democratica», al nome di Zara spettò l'ostracismo.
      Quale non fu la trepidazione quando, per la prima volta ad un raduno nazionale degli alpini, e subito dopo dei bersaglieri, quasi di soppiatto, i reduci di Zara vollero sfilare alzando l'azzurro striscione dove campeggiava la scritta: «Morti o vivi i Bersaglieri (gli Alpini) di Zara - Pola - Fiume sono qui presenti». Ignorati dalla televisione, imbarazzati i Ministri e le autorità, quegli striscioni con il loro messaggio furono - e lo sono tutt'ora - accolti dall'applauso istintivo del popolo.
      Per decenni il comune lottò contro la burocrazia per far togliere dai documenti anagrafici dei propri cittadini quella «Yu» (Jugoslavia) che marchiava la nascita degli zaratini e degli altri italiani di Dalmazia. Grazie proprio al MSI-DN, ed alla cosiddetta legge Pazzaglia, furono finalmente liberati da una errata qualificazione che li offendeva.
      Per superare in qualche modo l'ostracismo, per far conoscere la propria presenza in modo più duraturo, il comune fece incidere il nome di Zara sul marmo di quelle lapidi che riusciva a murare creando o sfruttando i momenti. Una venne collocata al porto di Ancona, a ricordo dei legami delle due città dirimpettaie. Un'altra fu scoperta nella Piazzetta Dalmatica del Vittoriale a Gardone Riviera, dove Gabriele d'Annunzio ha voluto conservare la prua della Regia Nave Puglia. Curiosità quasi incomprensibile per gli italiani di oggi. Per gli esuli, sacrario alla memoria del comandante Tommaso Gulli e del suo motorista Aldo Rossi, caduti su quella tolda per mano croata, il 12 luglio 1920, quando la nave si trovava a Spalato. A Torino, è stata collocata una lapide sulla casa dove aveva abitato Niccolò Tommaseo.

 

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      A Rosolini (Siracusa), città natale di Vincenzo Serrentino, il comune consacrò nel marmo il ricordo dell'ultimo rappresentante ufficiale dell'Italia a Zara, ucciso dai titini, e ad Ercolano, nella scuola dove insegnava, il sacrificio del professor Vincenzo Fiengo soppresso a Zara dai partigiani. Un cippo venne eretto a Monte Zurrone - dove sono ricordati i caduti senza croce - alla memoria dei tanti anonimi figli di Zara scomparsi nella tragedia della guerra.
      Nel culto dei propri morti il comune costituì il «Madrinato Dalmatico», affidando alla pietà di un comitato femminile l'onere di salvare dalla distruzione il plebiscito d'italianità e di storia espresso dalle lastre tombali nel cimitero di Zara.
      La città amava ed ha sempre amato il soldato d'Italia che l'aveva redenta, ed il comune in esilio, interpretando l'immutato sentire dei propri cittadini, con l'apprezzato consenso degli stati maggiori, ha consegnato le azzurre drappelle con i tre leopardi al 22 Battaglione carri che, nell'araldica del proprio stemma, racchiude quello di Dalmazia.
      Ha gemellato, durante una particolare cerimonia, la nave San Marco della marina militare che si fregia del motto dalmatico «Ti con Nu - Nu con Ti».
      Ha concesso la cittadinanza onoraria della città ai reduci del comando truppe, poi divisione, «Zara» ed ai reduci del battaglione Bersaglieri «Zara». Al raduno nazionale dei Bersaglieri di Asti, al gonfalone del comune di Zara in esilio furono resi gli onori militari, poiché il battaglione Bersaglieri «Zara» era nato dal 9 reggimento, che aveva la propria sede ad Asti.
      Gli zaratini, consci che la loro identità è - e sarà - parte della storia d'Italia, anche quando i protagonisti di questi eventi non più esisteranno, attraverso il comune ed il loro giornale, lo Zara, con personale contributo di tutti e di ciascuno, a Venezia, presso la chiesa dei Santi Giorgio e Trifone, dove sin dal 1451 ha sede la «Scuola Dalmata» voluta dalla Serenissima, hanno ristrutturato un intero stabile trasformandolo nel loro museo-archivio. E lì, con documenti, libri, cimeli donati dagli esuli stessi vive la incontrovertibile testimonianza della loro storia, della cultura dalmata. Completa, in tal modo, l'altra testimonianza racchiusa negli undicimila volumi della biblioteca Cippico-Bacotich, conservata dalla gelosa cura del Senato della Repubblica.
      Intorno al comune hanno gravitato le altre iniziative degli esuli. Ha rivisto la luce La Rivista Dalmatica, nata a Zara nel 1899, edita a Roma dall'Associazione nazionale dalmata che, con la regolarità dei suoi fascicoli trimestrali, dopo novantacinque anni di attività, si allinea oggi fra le più vecchie riviste d'Italia. È risorta la Società Dalmata di storia patria, fondata a Zara nel 1926, attiva a Venezia con le sue periodiche monografie, con le sue tornate di studio.
      Gli zaratini, dal 1953, sono fra loro collegati dal periodico Zara, cui va il merito d'aver mantenuto vivo lo spirito della città, raggiungendo anche le comunità degli esuli all'estero, con le quali il comune mantiene un continuo contatto. A Sidney, a Brisbane, a Melbourne, dove si sono organizzate in circoli dalmatici, a Toronto in Canada, negli Stati Uniti, oltre ai concittadini in America Latina. Impegno non indifferente, che costituisce una delle attività più attentamente seguite dal comune.
      Proprio nei giorni in cui insorgeva il conflitto serbo-croato, per la munificenza di uno zaratino, a Zara è stato consacrato il ricostruito santuario della Madonna della Salute, centro di devozione della città, integralmente demolito dai bombardamenti dell'ultima guerra.
      Da Ancona, via mare e via terra sono state inviate a Zara centinaia di tonnellate fra viveri, indumenti, medicinali, raccolti dal comune. Gli esuli, umanamente sensibili, superando ogni barriera politica e la tragicità di ricordi sofferti in prima persona, hanno inteso soccorrere quanti si trovano nella loro città, nuovamente martoriata da una guerra.

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      Nel 1992, a settembre, gli zaratini si sono riuniti ad Assisi nel loro 38 raduno nazionale. Hanno riconfermato come loro sindaco lo «stilista» Ottavio Missoni, nato a Ragusa, educato a Zara. Su sua proposta l'assemblea dei cittadini, nella città del Santo patrono d'Italia, ha approvato un documento che facciamo nostro.
      Dopo aver ringraziato l'allora Presidente della Repubblica Cossiga, per le parole pronunciate sull'incrociatore Garibaldi; dopo aver ricordato il travaglio della città nella sua storia, la tenace fedeltà all'Italia dei suoi cittadini, il loro apporto in pace ed in guerra; dopo aver espressa la sentita gratitudine alla Patria per le ricompense al valore individualmente concesse ai propri figli che nel combattimento hanno esaltato il proprio credo, ha chiesto: «che il Governo italiano voglia ricordare anche il sacrificio dei tanti militari e civili anonimamente caduti, soppressi, dilaniati dalle bombe, annegati, fucilati, con la concessione di una medaglia d'oro cumulativa "alla memoria" della città di Zara che, nel travaglio coscientemente affrontato in nome della Patria, ritiene di averne legittimamente titolo».

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      Onorevoli Colleghi!

      Se un Presidente della Repubblica si è inginocchiato davanti alla grande lastra tombale di Basovizza, onorando quei caduti senza nome troppo a lungo ignorati, siamo convinti che la Camera dei deputati, oggi, ben possa deliberare la concessione al comune di Zara in esilio di una medaglia d'oro «alla memoria» dei suoi cittadini che con il loro sangue hanno impregnato le macerie della città perduta in un patto che, confermando la storia, trascende gli eventi.

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      I dati riportati in questa relazione sono stati ripresi, in particolare, dal volume Per l'Italia - Centocinquanta anni di Storia dalmata, che raccoglie quanto Zara ed i dalmati hanno dato all'Italia. Documentazione necessaria per valutare i momenti e le circostanze che presiedono alla concessione della massima ricompensa al valor militare.
      Il volume è da considerare come essenziale parte integrante della presente relazione, e come tale viene parzialmente riprodotto in calce alla stessa per la necessaria e più completa conoscenza degli avvenimenti da parte degli onorevoli colleghi.
      Una copia del citato volume è stata già depositata nella scorsa legislatura, a cura dei proponenti, negli uffici della Segreteria generale della Camera dei deputati, ed altra copia, non appena la proposta di legge avrà completato il proprio iter, sarà trasmessa a cura dei proponenti alla commissione militare cui compete l'esame dei titoli per la concessione delle ricompense al valor militare.

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      Onorevoli Colleghi!

      Affidiamo alla Vostra sensibilità questa proposta di legge, che conferma alla nostra storia il sacrificio e la dedizione di una comunità che ha sempre onorato l'Italia.